Artribune

Diego Singh è l’artista prescelto per la mostra inaugurale della Galleria Macca

Per la prima volta in Europa viene presentata la sua serie SON, in contrapposizione con un suo lavoro della sua serie Denim ancora in divenire.

Nella sala principale della galleria, i lavori della serie SON, sviluppati attraverso una app creata per smartphones, interpretano la Pittura come un topos linguistico. Per Singh, questa piattaforma linguistica ha una doppia funzione, “accesso” ma anche “repressione”, ovvero un territorio dove il conflitto è aggravato a causa della natura subdola e contorta dei segni.
Nei lavori in mostra, Singh utilizza morphing apps (il morphing è l’uso in contemporanea di una dissolvenza incrociata, una trasformazione fluida, graduale e senza soluzione di continuità tra due immagini di forma diversa) per presentare il risultato di una serie di segni che si “prestano” ad una distorsione manuale, tutti ottenuti da note musicali (SON) di canzoni di protesta o successi pop, da disegni animati e comics o articoli giornalistici sulla sorveglianza di massa.
Queste fonti (le note musicali, i comics, gli articoli…) vengono scelte in modo random e poi trattate come immagini, pronte per essere dissolte, distorte, filtrate e espanse grazie all’interazione delle dita sullo schermo dello smartphone, stravolgendo il loro significato originale, quasi a voler rappresentare allo stesso tempo un suono e un balbettio.
Questo nuovo SON/suono/immagine ottenuto è illeggibile, incomprensibile e produce un surplus semantico, una nuova forma di comunicazione; le note musicali vengono deformate, diventando così dei captchas pronti per essere suonati, portando con sé un nuovo suono, SON appunto, creato dalle note musicali accavallate le une sopra le altre, dai silenzi prolungati o raccorciati dal software. La loro “lettura” quindi potrebbe essere vista come un balbettio in un testo che diventa immagine, e forse un segno che rivela uno singhiozzare.

Nella seconda sala, Singh presenta un lavoro della serie Denim, come rottura dalla visione proposta nell’installazione principale. Il lavoro, iniziato nel 2009 e finito nel 2015, intitolato Jeans Valjeans allude al personaggio di Jean Valjean nei Les Miserables. È come se questo lavoro fosse messo all’angolo dai segni distorti presenti nella prima sala, ma – come Jean Valjean – appare ripulito per sua volontà. Diego Singh ha iniziato a sviluppare la sua serie Denim nel 2006, come modo di presentare, o reprimere, l’opera – e la nozione dell’opera – dipingendo su lavori mostrati in precedenza e già catalogati.

SON continua ad esplorare i terreni tumultuosi della pittura e del suo archivio, ma lo fa da un punto in cui le fonti e il risultato finale sono visibili dal di fuori e possono essere interpretati come un’insieme di forze separate, in cerca di loro stesse, oltre l’archivio – il padre – e un fantasmagorico velo che appare completamente strappato, ora, nel 2015.

Diego Singh è nato in Argentina, vive e lavora a Miami. È il fondatore di Central Fine, un progetto curatoriale in sede a Miami e Buenos Aires. Ha co-fondato Terri and Donna, insieme a Clayton Deutsch, esperienza ora conclusa. Alcune delle sue mostre personali piu’ recenti, Yes No Thank You, nella Galleria Tomio Koyama a Tokyo (fino al 29 giugno); Unimodern Gondolieri alla Various Small Fires a Los Angeles; Bulletproof, da MendesWoodDM a São Paulo. Alcuni lavori di questa serie sono stati esibiti in diverse istituzioni: Locally Sources, al American University Museum di Washington; Recent Acquisitions al Perez Art Museum Miami (PAMM), Miami; Prospects al MOCA San Diego, e Le Ragioni della Pittura, alla Fondazione Malvina Menegaz. , a Castelbasso (TE). Vari lavori di Singh fanno parte di varie collezioni permanenti istituzionali, tra le quali segnaliamo il MOCA San Diego, il Perez Art Museum Miami e la De La Cruz Collection, oltre che di molte collezioni private.

[Traduz. Claude Corongiu]