La Donna Sarda

La vestizione della sposa. Performance a Cagliari di Ruben Montini

Qualche anno fa durante una performance artistica, Ruben  Montini si chiedeva: Cosa resta di noi ? Pensavo fosse  troppo giovane per avere già una risposta.

E sarebbe stato così se non avesse vissuto in Sardegna i suoi primi 18 anni e non avesse atteso in punta di piedi, sull’orlo sabbioso di questa terra vecchia, il momento per volare via, e riappropriarsi del sé più intimo; se non avesse esplorato il rapporto tra il corpo e l’identità, denunciando con forza e tensione le strutture sessiste fino a incidersi  sulla pelle, nel corso di una performance, la parola  “frocio”. Sarebbe stato così se non avesse recuperato i legami con una terra che ha abbandonato molto presto e che oggi riscopre attraverso l’arte e le sue tradizioni tessili.

Ha scelto un linguaggio tra i più complessi per esplorare l’altra parte della sua anima attraverso l’arte: la performance non come rappresentazione ma ripetizione spasmodica di azioni che si rinnovano nel movimento, nei gesti, nelle parole per recuperare “possibilità” di ciò che è gia stato e dunque finito.

In una performance AgiudamiaTui, Virgini, del 2011, avevi già affrontato il tema dell’appartenenza a una Communita riproponendo cliché di donne del sud e stereotipi religiosi. Avvolto nel muncadore hai cantato fino allo sfinimento l’Ave Maria 88 nel dialetto di Laconi. Quali sono le differenze tra questa performance e quella che proponi in anteprima alla galleria Macca?

Il lavoro “AgiudamiaTui, Virgini” del 2011 non era un lavoro su stereotipi legati alle donne del sud ma una riflessione sulle credenze popolari e religiose e sui fraintendimenti che talvolta le accompagnano, legati a incomprensioni linguistiche. Indossavo “su muncadore” appartenuto alla madre di mio nonno materno, l’unica sarda della mia famiglia, in un tentativo di assimilazione della figura della donna, anche in quel caso madre, che costituisce uno  degli argomenti principali su cui si focalizza la mia ricerca. Nella performance che presento alla galleria Macca, invece, il tentativo di incarnare l’immagine femminile per eccellenza viene portato all’estremo. La mia azione sarà costituita principalmente dall’ “affidarmi” alle cure e all’esperienza di alcune sarte, maestre nell’arte della sartoria tradizionale.

Ci sono richiami iconografici alla figura della donna sarda in costume tradizionale?

La performance è interamente realizzata con costumi locali originali, alcuni dei quali anche molto importanti e antichi. Direi, dunque, che il richiamo è palese nonostante l’accento sia posto su un tentativo di inclusione del mio corpo all’interno di una cerimonia, quella della vestizione della sposa, esclusivamente  femminile.

Quanto ha inciso invece, nella scelta di questo tema, il dibattito politico in corso sulle unioni omosessuali e la stepchild adoption?

Niente, è solo casualità del momento.  Il mio lavoro affronta tematiche di genere legate all’identità, alla sessualità e all’amore in generale e affronta le varie questioni sempre per un'esperienza diretta, personale. Sono consapevole del fatto che questo progetto possa essere facilmente strumentalizzato, considerate le circostanze politiche e sociali contingenti, ma di fatto non è stato pensato in relazione al progetto di legge.

Tu lavori con il corpo: si può ancora provocare mostrandosi nudi e scioccando il pubblico come hai fatto durante qualche performance?

L'uso del corpo è molto  difficile, ha bisogno di un’attenzione particolare sia da parte dell’artista,  dell’autore, del pubblico e di chi ospita il progetto. Lo uso meno rispetto ai miei primissimi lavori in cui l’azione era quasi sempre realizzata dalla mia nudità o da quella di altri performers coinvolti nello stesso momento, ma semplicemente perché adesso non è necessario. L’impiego del corpo nudo, come di qualsiasi altro medium, deve essere necessario e non abusato. Provocare il pubblico non è un mio bisogno in questo momento storico, neanche nella mia ricerca. Anzi, inizio a capire che mostrarsi nudi costituisce un filtro, una separazione che diviene lontananza tra il pubblico e il performer. Questo gap  è colmato  da un corpo vestito con abiti “normali”, “quotidiani”, perché durante l’azione pone l’artista e il fruitore sullo stesso piano visivo e non solo fisico. La normalità anche nell’abbigliamento del performer è importante per raccontare la normalità dei sentimenti e dei temi che racconto nel mio lavoro.

Rispetto alle tue precedenti performance, in cui ti lasci quasi consumare con ripetizioni seriali in gesti o parole, cosa cambia in questa vestizione, o cosa riproporrai? 

Ci saranno dei momenti simili a tutte le mie performance, caratteristici del mio modo di lavorare.  Questa volta l’azione non si prolunga fino a diventare estenuante. Si tratta di una vera e propria vestizione che quindi richiede il tempo necessario al completamente della stessa e niente di più. Io mi affido, come in altri lavori precedenti, all’esperienza di professionisti di altre discipline per il raggiungimento dello scopo prefisso.

Come mai ha scelto Cagliari per questonuovo lavoro e come nasce l’incontro con la gallerista della Galleria Macca?

Non ho scelto Cagliari per questo progetto ma ho pensato appositamente questo progetto per Cagliari e per tutta la Sardegna. Ho sempre desiderato di poter realizzare una performance nella mia terra natale, e dopo aver incontrato Claude Corongiu, direttrice della Galleria Macca, ho pensato che ci fossero i presupposti per lavorare a un progetto insieme. La sua galleria, per la scelta di mostrare prevalentemente artisti sudamericani, è caratterizzata da un internazionalismo e un’apertura difficile da trovare in altre realtà culturali locali.

Ruben Montini, Pomada, 2015, curated by Karol Radziszewski, Centre for contemporary Art Ujazdowski Castle, Warsaw
(video by OKNOstudio)